Sul serio, non toccate i sessantenni, noi siamo quelli che hanno giocato per strada, quando la strada era ancora un’estensione naturale di casa. Niente caschetti, niente telefonini, niente ansie genitoriali appese a un’app. Solo noi, le ginocchia sbucciate, una palla mezza sgonfia e il sole che faceva da orologio.
Siamo cresciuti ascoltando le emozioni nei rumori di cucina: un coperchio sbattuto diceva più di mille parole. Abbiamo imparato a cucinarci la pastina, ad accudire un fratello più piccolo, a entrare in casa in punta di piedi per non disturbare. A sette anni avevamo le chiavi nel taschino, a dieci già capivamo la fatica.
Il frigorifero era la nostra prima autonomia, la cartina stradale il nostro primo navigatore. E bastava un panino avvolto nella stagnola per attraversare mezza Italia, senza Google Maps né prenotazioni online. Il mondo non era a portata di click, era a portata di curiosità.
Abbiamo vissuto il passaggio dalla radio col manopolone ai vinili, dalle cassette al walkman, fino a quei CD che oggi sembrano già archeologia. E ora, con migliaia di canzoni in streaming, rimpiangiamo ancora il rumore del nastro che si riavvolgeva con una Bic.
Eravamo sporchi e felici. Si curava tutto con un po’ di saliva, una foglia di piantaggine o una pacca sulla spalla. Se non c’era sangue, non era niente. Non avevamo intolleranze note, ma stomaci d’acciaio e una fame vera. Pane e zucchero. Pane e olio. Una merenda che oggi nessun influencer saprebbe rendere fotogenica, ma che allora sapeva di cielo.
Ci vestivamo con cura, anche solo per andare a giocare. La maglietta buona non si sporcava. Le macchie si toglievano col sapone giallo e con la pazienza di chi sapeva riparare tutto: le cose, i rapporti, persino se stesso.
Siamo cresciuti con i “ti voglio bene” non detti, ma dimostrati. Con i compleanni segnati a penna sul calendario della cucina. Con i nonni che erano le nostre enciclopedie viventi. Abbiamo imparato a memoria numeri di telefono, ricette e storie che oggi non trovi su nessuna piattaforma.
Siamo l’ultima generazione che ha conosciuto l’attesa. La fila alla posta. Il sabato del villaggio. Il gusto di una sorpresa non annunciata. Il tempo lungo, quello che ti insegna a desiderare davvero qualcosa. E oggi, nel mondo dell’istantaneo, custodiamo ancora quella lentezza come una forma di saggezza.
Ci chiamano “boomer” con leggerezza, come fosse una condanna. Ma noi siamo sopravvissuti. A un’infanzia senza casco né seggiolino. A estati senza crema solare e a inverni col gelo nei corridoi. A una scuola che ti insegnava la vita prima ancora del programma. A una giovinezza fatta di libertà, sì, ma anche di regole non scritte che ci hanno temprato.
Abbiamo visto un mondo cambiare così in fretta da sembrare un altro pianeta. Eppure siamo ancora qui. Con una caramella alla menta nella tasca, “per ogni evenienza”. Con la memoria piena di storie vere, vissute, non solo fotografate. Con un istinto che vale più di cento notifiche.
Non siamo solo una generazione. Siamo una radice. E senza radici, anche l’albero più moderno finisce per cadere al primo vento.
Io, che oggi ho 67 anni, queste cose non le ho lette in un libro o viste in una serie nostalgica su qualche piattaforma. Le ho vissute tutte. Sulla mia pelle, nelle mie ginocchia sbucciate, nei pomeriggi infiniti passati fuori casa, nei silenzi che dicevano più di mille parole, nei sorrisi di chi sapeva farcela con poco.
Oggi mi guardo intorno e vedo un mondo che corre, che scorre via come acqua tra le dita. Ma dentro di me resta quella forza antica, ruvida, vera. Quella di chi ha imparato a vivere quando tutto era più difficile, ma anche più autentico. E ogni volta che il presente mi sembra troppo vuoto o troppo artificiale, mi basta chiudere gli occhi e tornare lì: a un campo sterrato, a un bicchiere d’acqua dal tubo, a una voce che mi diceva semplicemente “ci vediamo quando fa buio”.
Perché noi, quelli di prima, non ce ne siamo mai andati davvero. Siamo ancora qui. E abbiamo ancora molto da insegnare.

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