Nel giorno di Pasqua, mentre milioni di italiani si raccoglievano in famiglia o nella riflessione di una festa sacra, un cittadino camerunense residente in Italia, tale Ibii Ngawang, si è esibito davanti alla Questura di Macerata in un video indecente, uno schiaffo agli italiani perbene. Non si è limitato a offendere con parole triviali la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ma ha persino trascinato nel fango sua figlia minorenne. Minacce, oscenità, volgarità gratuite. Il tutto orgogliosamente pubblicato sui social, come fosse un trofeo.

Ora, fin qui la storia sembrava chiara: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firma un decreto di espulsione, il Prefetto lo convalida, la società sportiva Cluentina rescinde il contratto col soggetto in questione. E tutti, o quasi, tirano un sospiro di sollievo. Sembrava il minimo sindacale in uno Stato che vuole definirsi serio: chi insulta le istituzioni, chi minaccia una madre e una figlia, non può restare indisturbato sul nostro suolo.

E invece no. Perché in Italia, da qualche tempo, la realtà non si misura più col buonsenso. Entra in scena la giudice Silvia Albano, toga nota per le sue posizioni progressiste, in servizio presso la sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma. Ed ecco il colpo di scena: la sospensione del decreto di espulsione. In poche righe, si annulla l’effetto di un provvedimento legittimo, giustificato, doveroso. Si cancella la giustizia e si dà un nuovo segnale pericolosissimo: puoi insultare, minacciare, vantarti di vivere alle spalle degli italiani e, se sei nel “girone giusto”, troverai sempre qualcuno pronto a proteggerti.

A questo punto, non è questione di destra o sinistra, né di “toghe rosse” o ministri “neri”. È una questione di dignità nazionale. Di rispetto verso milioni di cittadini che faticano per pagare l’affitto, per mettere un piatto in tavola, per crescere figli onesti. E che ogni giorno vedono calpestata la loro fiducia nello Stato da decisioni incomprensibili, ideologiche, provocatorie.

Ngawang non è un perseguitato politico. Non è un rifugiato in fuga dalla guerra. È un giovane uomo che, con spavalderia e arroganza, ha dimostrato di non avere il minimo rispetto per il Paese che lo ospita. E se davvero lo Stato italiano vuole farsi rispettare, deve smetterla di piegarsi a certi magistrati che sembrano vivere in un mondo parallelo, dove la legge vale solo se combacia con la loro ideologia.

Non è più solo una polemica politica. È una questione di civiltà. È una questione di giustizia. Ed è tempo che la magistratura italiana si guardi allo specchio e decida da che parte stare: con il popolo o contro di esso.

Perché la pazienza, quella vera, ha un limite. E l’Italia dei cittadini perbene, sebbene silenziosa, comincia a essere stanca. Molto stanca.

Di Giuseppe Cianci

E' necessario difendere la libertà di pensiero e di espressione oggi più che mai minacciata dal pensiero unico imposto da un sistema mediatico prevalente