Inseguire un criminale in Italia, oggi, è diventato un esercizio da geometra e da cronometrista. Più che servire lo Stato, un poliziotto o un carabiniere devono avere in tasca un metro e un orologio: misurare i metri che li separano dall’auto del fuggitivo, cronometrare i secondi dell’inseguimento. Un’azione troppo lunga, o troppo ravvicinata, può costare cara. Anche la divisa.

È il paradosso emerso con forza nel caso del carabiniere imputato per l’inseguimento che portò alla morte di Ramy, un giovane che, secondo le ricostruzioni, non si fermò all’alt. La Corte ha stabilito che l’azione dell’Arma non fu proporzionata. Ma qui non si giudica solo un caso: si giudica un intero modo di garantire sicurezza in Italia. O meglio, di non garantirla più.

La domanda non è più “chi ha sbagliato”, ma: chi ha il coraggio di fare rispettare la legge?
Chi ha ancora gli strumenti per difendere lo Stato, se ogni azione di forza viene messa sotto processo con il metro e il cronometro in mano?

In qualunque altro Paese europeo o extraeuropeo — Francia, Germania, Stati Uniti, perfino in Paesi dell’Est o dell’America Latina — chi scappa da un posto di blocco sa cosa rischia. Sa che la responsabilità di un eventuale esito tragico grava innanzitutto su chi viola la legge, non su chi la fa rispettare. Ma da noi no. Da noi il criminale è sempre più spesso trasformato in vittima. E chi rappresenta lo Stato deve camminare sulle uova.

Questa deriva ha effetti devastanti. Il senso di insicurezza cresce, e con esso l’impotenza delle forze dell’ordine. I cittadini percepiscono che il crimine può agire impunito. Gli agenti sanno che ogni intervento può trasformarsi in un processo. L’equilibrio salta. E saltano i nervi, le motivazioni, perfino la voglia di indossare una divisa.

Chi sta scrivendo queste norme? Chi vuole una giustizia paralizzata, una sicurezza disinnescata? Chi vuole trasformare le forze dell’ordine in capri espiatori e gli insicuri in rassegnati?

La solidarietà va al carabiniere coinvolto nel caso Ramy. Va a tutti quelli che ogni giorno rischiano la vita per garantire sicurezza a un Paese che li manda allo sbaraglio. È tempo che la politica, la magistratura e l’opinione pubblica si pongano una domanda seria: vogliamo ancora che chi indossa una divisa abbia l’autorità e il coraggio di agire? O preferiamo disarmarlo con i codicilli e poi sorprenderci dell’anarchia nelle strade?

Perché la vera domanda, ormai, è questa: chi ha paura della giustizia?

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Di Giuseppe Cianci

E' necessario difendere la libertà di pensiero e di espressione oggi più che mai minacciata dal pensiero unico imposto da un sistema mediatico prevalente