Gridano “blocchiamo tutto”, e di fatto lo fanno: università occupate, porti paralizzati, stazioni ferroviarie interrotte, autostrade chiuse. Ma a pagare il conto non sono certo loro – studenti fuori corso, attivisti professionisti del dissenso, nullafacenti che del sacrificio conoscono solo la parola – bensì i cittadini comuni, quelli che ogni giorno si alzano all’alba per guadagnarsi da vivere, quelli che non hanno il privilegio di “giocare alla rivoluzione” con i cartelli in mano.
La retorica è sempre la stessa: “fermare il genocidio a Gaza”. Un obiettivo nobile, se fosse perseguito con serietà e strumenti reali. Ma cosa c’entrano i lavoratori italiani bloccati ore nel traffico con la tragedia in Medio Oriente? Cosa c’entra un padre che deve accompagnare il figlio malato a una visita medica e resta intrappolato su un’autostrada chiusa da chi urla slogan contro Israele?
Il paradosso è crudele: nel nome di un popolo lontano, si infligge sofferenza a chi vive già di precarietà e disagi. Si fermano i treni: pendolari che devono timbrare il cartellino perdono la giornata di lavoro. Si fermano i porti: camionisti e autotrasportatori restano bloccati, aziende subiscono danni, famiglie perdono reddito. Si occupano le università: studenti che vorrebbero solo studiare in pace vengono trascinati dentro una lotta che non appartiene loro.
E persino figure istituzionali si prestano a questa irresponsabilità. Oggi Ilaria Salis, da parlamentare europea, ha lanciato sui social proprio il messaggio: “Blocchiamo tutto”. Un invito diretto al disordine, che andrebbe fermato con fermezza: chi semina caos e incita a bloccare il Paese non meriterebbe applausi, ma un arresto.
La verità è che chi urla “blocchiamo tutto” non conosce il significato di responsabilità. Non conosce la fatica del lavoro, il dramma di chi deve correre in ospedale, il peso di chi non può permettersi di perdere tempo e soldi per un blocco stradale. Per loro è un gioco, un palcoscenico. Per milioni di italiani è invece un danno reale, quotidiano, che si aggiunge a una vita già dura.
Il diritto a manifestare è sacro. Ma non deve mai trasformarsi nel diritto a rovinare la vita altrui. Fermare un genocidio è un obiettivo che si persegue nelle sedi internazionali, con diplomazia e politica, non bloccando lavoratori, malati e poveri italiani. Perché questi ultimi un genocidio lo stanno già subendo, silenzioso e quotidiano: quello dell’indifferenza di chi, nel nome di una causa lontana, calpesta i loro diritti vicinissimi.