In un’epoca di apertura verso l’islamizzazione, in cui tutto sembra dover essere filtrato attraverso la lente del politicamente corretto, parlare apertamente di ciò che si teme o si vede accadere nel proprio Paese rischia di diventare un atto di coraggio. Ma restare in silenzio oggi sarebbe una colpa.
L’Italia è una nazione fondata sulla sua storia, sulla sua cultura e su radici cristiane profonde. Non è solo una questione di religione, ma di identità, di valori che hanno modellato il nostro popolo, la nostra idea di comunità, di giustizia, di libertà. Eppure oggi, di fronte a un’immigrazione massiccia, incontrollata e spesso scarsamente integrata, siamo chiamati ad abbassare lo sguardo, a evitare parole scomode per non essere etichettati, censurati o addirittura perseguiti.
L’islamizzazione non è uno spettro inventato da qualche estremista, ma un fenomeno osservabile in molte periferie d’Europa: dove le chiese si svuotano e le moschee si moltiplicano, dove i simboli della nostra cultura vengono rimossi per “non offendere”, dove leggi e costumi di altre civiltà iniziano a dettare regole in territori che dovrebbero rimanere fedeli ai principi occidentali.
Parlarne non è razzismo, ma senso di responsabilità. Voler difendere il nostro patrimonio culturale, la nostra libertà, la nostra coesione nazionale, non è odio, ma amore per ciò che siamo. Eppure oggi in Italia chi solleva questi temi viene deriso, insultato, o – peggio – perseguito. Si arriva persino a processare o condannare persone per un commento online, mentre si tollerano manifestazioni violente in nome di altre culture o ideologie.
Questa non è libertà di espressione: è censura selettiva. Una censura spesso imposta da una certa sinistra ideologica, che non perde occasione per indebolire la famiglia, ridurre l’autonomia degli individui e rafforzare uno Stato che pretende di educarci, indirizzarci, correggerci.
Figure come Angelo Bonelli o Nicola Fratoianni incarnano questa visione pericolosa: negano i problemi legati all’immigrazione incontrollata, minimizzano le fratture culturali che si stanno aprendo nel nostro tessuto sociale, demonizzano chi osa sollevare dubbi o proposte alternative. Così facendo, non solo remano contro gli interessi degli italiani, ma mettono a rischio l’unità stessa del Paese, alimentando divisioni che potrebbero diventare insanabili.
Non si tratta di essere contro qualcuno, ma di essere finalmente a favore dell’Italia. A favore di un’identità che non può essere svenduta, né dissolta in nome di un universalismo astratto. A favore di un futuro in cui l’integrazione sia reale e non una resa ma soprattutto, a favore di una libertà che non può essere concessa a corrente alternata: o vale per tutti, o non vale per nessuno.
È ora di dirlo chiaro e forte: l’Italia ha il diritto – e il dovere – di difendersi. Culturalmente, socialmente, demograficamente. Senza vergogna. Senza paura.

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